18.01.2024
Naturografia, la natura che ci parla di arte
Le tele sono contaminate da microorganismi, foglie, fanghi, funghi, germogli. «La magia di un fiume non si può raccontare o dipingere, c’è sempre qualcosa che sfugge», così la pensa Roberto Ghezzi mentre lascia che sia la natura stessa a parlare si sé.
Naturografie, opere nelle quali la natura è protagonista, e si imprime sulla tela che Roberto Ghezzi le mette a disposizione. Naturografie è un’idea che l’artista ha brevettato diversi anni fa quando ha deciso di abbandonare la pittura tradizionale, lasciando parlare la natura. Le tele naturali usate da Roberto Ghezzi vengono immerse in diversi habitat, con risultati davvero straordinari, sembrano pittura materica. Le tele sono contaminate da microorganismi, foglie, fanghi, funghi, germogli. Con questa “tecnica” Ghezzi ha girato il mondo, per regalarci tele che sono sinfonie, musiche a due mani con la natura.
A Milano ha presentato il libro (insieme a Cristina Gilda Artese che ne ha curato l’edizione e alla Prof. Nicoletta Ancona, Conservatrice dell’Acquario Civico, dove si è svolto l’incontro) che racchiude il frutto dei suoi due ultimi progetti, Flumina (in latino fiumi, ndr) e The Greenland Project, nati dall’esperienze che Ghezzi ha avuto in Lombardia e in Groenlandia dove ha collaborato con i ricercatori del CNR. Ghezzi è stato ospite diverse volte a Kilimangiaro su RAI 3, perché il suo lavoro ha un forte legame con la scienza, grazie alla sua sperimentazione, infatti, aiuta a definire lo stato di salute dell’ecosistema nel quale opera, contribuisce alla raccolta di dati utili alla ricerca scientifica come la qualità delle acque e dei terreni. Come nasce il tuo rapporto con la scienza? “Nasce successivamente all’intuizione artistica, volevo superare i tradizionali mezzi espressivi per trovare un approccio che potesse entrare in un contatto più stretto con l’ambiente e quindi qualcosa che non fosse una rappresentazione classica di un paesaggio.”
Quindi, hai chiesto l’aiuto di esperti?
«Dovendo interagire con delle forze che non conoscevo mi sono rivolto proprio a dei ricercatori, le mie competenze non erano sufficienti per capire di che colore avrebbe colorato il mio tessuto un’esposizione di tre mesi in un lago, piuttosto che di un anno sottoterra in un certo bosco dell’Appennino o sotto una cascata in Islanda. L’aspetto scientifico e quindi del geologo, del biologo e dello scienziato è stata una necessità tecnica per avere i mezzi per poter procedere e comprendere i meccanismi che erano alla base delle mie creazioni».
In che modo il tuo lavoro ha aiutato la ricerca scientifica?
«I miei lavori sono diventati anche un luogo di raccolta di dati da poter restituire allo scienziato. La carta che rimane sotto il ghiaccio, che si sta fondendo descrive un fenomeno in una maniera diversa. Il ricercatore del CNR che lo studia attraverso fotografie e video può ottenere un altro punto di vista su un problema che è quello del cambiamento climatico, o ancora con che velocità certi tessuti si biodegradano in un determinato ambiente piuttosto che in un altro».
Il tuo lavoro è quindi un ponte tra arte e scienza?
«Si è un ponte è a doppio senso di circolazione, qualcosa che prendo e qualcosa che restituisco. Queste opere, secondo me, possono alimentare delle conoscenze, con degli esperimenti anche un po’ stravaganti a cui magari lo scienziato proprio perché si avvale di un metodo scientifico non arriva».
Non nascono, quindi, a caso le opere di Roberto Ghezzi, sono infatti precedute da un’attenta fase progettuale che inizia con l’analisi del territorio e degli elementi che lo compongono. Ghezzi sceglie con accuratezza i luoghi dove ancorare i supporti e studia la materia (terra, acqua, fango) che li compenetrerà. L’artista visiona lo stato di avanzamento delle tele finché non ritiene siano pronte, è poi l’intuito che gli dice che la magia e il mistero della natura si sono finalmente fuse con la tela stessa, e che è ora di raccoglierne i frutti.
Credito fotografico: courtesy progetto AQUAE Venezia, Simone Rossi Ph Cr