Milano, 7°

Cultura

Nel nome della filantropia

Il 3 giugno del 1910 Arthur James Balfour dovette illustrare alla Camera dei Comuni la necessità dell’Inghilterra di permanere in Egitto. Qual era il senso dell’atteggiamento che condusse l’Occidente alla “conquista” dell’Oriente?

Avere imprenditori filantropi fa bene alla società? Se valutassimo le realizzazioni prodotte grazie all’impegno finanziario profuso dai “magnati” del comparto industriale e del commercio non avremmo dubbi nel rispondere. Sono molti, infatti, i restauri di beni culturali, le opere pubbliche, gli interventi nel settore sanitario realizzati, nel nostro Paese, grazie all’iniziativa di soccorso volontario maturata in seno al settore privato.

Sul piano della filosofia, però, utilizzando, ovvero, lo stesso “strumento” motivazionale degli autori delle gesta al servizio della più ampia, duratura e multiforme comunità umana, potremmo individuare componenti di criticità e qualche contraddizione. Una “dislocation”, direbbero gli inglesi, che conduce su un’altra scala di pensieri, un punto di vista che analizza, con rispetto, gli immaginari “dislivelli di potere” da rintracciare in una realtà sociale così determinata. Serve un esempio dalle politiche di governo pubblico di come funzionano le dinamiche controverse che potremmo definire di “cristallizzazione delle identità”.

Il 3 giugno del 1910 Arthur James Balfour dovette illustrare alla Camera dei Comuni la necessità dell’Inghilterra di permanere in Egitto. Rassicurazioni indispensabili per un’occupazione che, a detta di alcuni membri del Parlamento, stava divenendo sconveniente. “Conoscenza” e “potere” garantivano al Paese occupante la capacità di far fronte alle esigenze di governabilità di luoghi ricchi di “antichità” e di “civiltà”, ma che non avevano mai manifestato, per Balfour, l’esigenza di un autogoverno. Si apriva la strada a quella “colonizzazione ideologica dell’Oriente scaturita dalla formalizzazione delle definizioni ingenue e troppo generiche di “orientale, come subalterno, “sionista o “maomettano. Ma anche, grazie al riverbero “occidentalista” in cui si rispecchiano alcuni studiosi con garbo riflessivo, a quella logica di autodefinizione di progresso occidentale del sapere illuminista da opporre alle realtà “diverse”, da studiare, anche solo per vincere il “campanilismo”.

L’atteggiamento che condusse alla “conquista dell’Oriente, vanificata dai successi militari “islamici” e dai rilievi “sul campo” che decostruivano l’immaginario dell’oriente lussurioso e, persino per La Commedia di Dante, scismatico e antagonista della fede cristiana, includeva la soddisfazione delle aspirazioni dei popoli.
L’umanesimo “occidentalista, pubblico o privato, presenta alcuni rischi. Quello di considerare “gli altri” naufraghi di uno sviluppo economico imprescindibile, ma che spetta soltanto agli intrepidi, ai saggi, ai fortunati, per esser felici anche laddove basterebbe molto meno. Il rischio di favorire l’idea di una realizzazione professionale che supera le proporzioni obiettive del proprio stile di vita. Il rischio di escludere, per contro, il “senso delle possibilità” di agire, grazie al proprio valore di cittadino, nella cornice democratica che vede tutti protagonisti e custodi del “destino comune”.

Condividi