12.07.2024
Dove è mai finito lo spirito di un evento nato in onore degli Dei? Riusciranno i valori animati dall’iconico antico simbolo dell’agonismo sportivo ancora a orientare l’idea di unire lo sport a un progetto mondiale di pace volto a portare i giovani a confrontarsi sul campo piuttosto che in battaglia?
È davanti a noi, in maniera immaginaria, l’espressione interrogante di Pierre de Frédy barone de Coubertin, fondatore dei Giochi Olimpici moderni nel 1896. Dove è mai finito lo spirito di un evento nato in onore degli Dei presso la città di Olimpia, nella Antica Grecia, e in seguito fagocitato nella centrifuga di un modernismo che ha trasformato una competizione tra gli atleti migliori in un dispositivo complesso, agitato all’interno da dinamiche locali e globali votate all’eccesso? Persino il principio cardine della Carta Olimpica (“L’obiettivo dell’olimpismo è porre lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, per promuovere una società pacifica attenta alla preservazione della dignità umana”) pare vacillare, oggi, in un mondo scosso da guerre e incomprensioni. La stessa tregua olimpica (Ekecheiria) ha avuto effetti utopici nell’era moderna, tanto che il binomio sport-progetto di pace è stato inficiato da dispute geopolitice, tensioni sociali (Sudafrica, apartheid), conflitti (Corea, Vietnam) e dalla guerra fredda chiusasi solo con il crollo del muro di Berlino del 1989 e la disgregazione dell’URSS.
Soverchiato dall’animus pugnandi di un mondo in lotta, il motto delle Olimpiadi Citius, Altius, Fortius (Più veloce, più in alto, più forte) con l’aggiunta di communiter (Tokyo 2020), per dare il meglio di sé, è tuttavia riuscito (miracolosamente) a riallacciare le sue profonde radici attorno ai cinque cerchi, simbolo iconico dei continenti per l’universalità dello spirito olimpico, in un ideale abbraccio come momento di fratellanza e di confronto leale. Ed ora che a Parigi, cento anni dopo l’edizione del 1924, il rito sportivo si rinnova, forse non con la sacralità delle origini, ma con l’effetto mediatico dirompente di un evento globale capace di coinvolgere il mondo intero, la fascinazione francesizzante sembra sollecitare consensi. A fronte di una complessa “macchina” di progettazione, realizzazione ed esecuzione, tra migliaia di contatti, persone impiegate, risorse ingenti investite, concentrata in un unico luogo ma con articolazione e dinamiche universali gestite da una governance, il CIO (Comitato olimpico internazionale), una sorta di “piattaforma” globale che fissa competenze, diritti e doveri con gli organizzatori del Paese ospitante (al quale assicura, tra diritti televisivi e sponsorizzazioni, un contributo di oltre un miliardo di dollari, pari al 50% dei costi operativi). La crescente dimensione e complessità dei Giochi, nel puzzle composito di impianti, trasporti, villaggio olimpico, sistemi di sicurezza, strutture commerciali e sanitarie, nell’inseguire il disegno ambito della visibilità planetaria (per mostrare il meglio di sé), paradossalmente (ecco, la contraddizione) può esibire forme stereotipate di nazionalismo culturale in contrasto con l’universalismo olimpico, nascondendo problemi sociali interni e zittendo le istanze democratiche (vedi Mexico 1968, Corea del Sud 1988) sfociate spesso in boicottaggi incrociati. Politica e promozione dei diritti umani si confondono, sopravanzate da uno dei più efficaci meccanismi di marketing internazionale nel mondo (con ricerca di sponsor globali), per fronteggiare costi astronomici che spesso eccedono le stesse capacità organizzative e finanziarie di molti Paesi.
Al di là di vacui esercizi retorici e di gesta epiche tutte da raccontare, c’è un fil rouge (siamo a Paris 2024, no?) che s’interpone tra dimensioni variegate e finalità plurime, pur in presenza di ambiguità ed interessi sottesi: il messaggio di speranza della meglio gioventù dello sport, bandiera di libertà indomita. Lo spirito olimpico ha preservato la sua unicità, in riva alla Senna.